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La prima cosa che notai furono le carcasse delle navi, abbandonate in una grande pianura giallastra qualche centinaio di metri oltre le sporgenze laviche cui stavo aggrappato. Le più grandi erano tre, spuntavano enormi dal mare di sabbia che si stendeva sotto di loro, incagliate tra la rena ocra ed il cielo nero – sembravano vecchie di secoli, con le loro strutture svuotate come grandi pesci disossati, le carene all’aperto sembravano gabbie toraciche mangiate dalla ruggine.

Sotto di loro si muovevano frenetiche minuscole figure, scure nell’aria senza moto, i loro rumori tanto lontani da essere impercettibili, fatto salvo per il costante martellio del ferro che proveniva dalle navi – cespugli di cantieri le attorniavano, grattandone via minuscoli pezzi al mio sguardo lontano, che dovevano essere grandi quanto tronchi d’albero per chi li stava togliendo dalle navi.

Le loro ombre si proiettavano in un alone diffuso, come diffusa era la luce livida che proveniva da ogni dove; feci in tempo a notare una grande concentrazione di figure attorno a quello che sembrava essere un fiume bluastro, prima di rendermi conto che il ragazzo aveva cominciato di nuovo a muoversi – e che io avevo perso il vantaggio acquisito.

Continuai a seguirlo, attaccandomi con le mani alla parete ruvida, cercando di trovare un equilibrio tra il desiderio di seguire il mio obiettivo, che si stava allontanando a grandi passi, e quello di non precipitare e cadere sul letto di veli di lava solidificata che si stendeva sotto di me.

I minuti seguenti passarono in uno strano gioco, un misto di nascondino e rincorsa, con la mia capacità di stare dietro al ragazzo che andava e veniva assieme alle curve del sentiero, alla mia paura di scivolare nell’abisso, al terrore di rimanere indietro in questo posto assurdo.

Mentre mettevo un piede dopo l’altro, contorto nello stretto passaggio tra le spire di pietra, quell’ultimo pensiero cominciò a prendere forza nella mia mente, fino ad allora consumata solo dal desiderio di stare dietro il più possibile al ragazzo.
Seguendolo, dove diavolo ero finito?

I pochi sguardi che avevo gettato al cielo nero sopra di me, orbo di stelle, mi aveva fatto pensare dapprima ad una caverna, ma non c’era caverna che potesse essere tanto grande da ospitare un intero cimitero di navi, ancora meno di navi tanto enormi come quelle che avevo visto prima, e che continuavo a vedere, di scorcio, di tanto in tanto.

Poi, c’era la questione della luminosità diffusa, che non sembrava provenire da nessuna parte – era una sensazione sottile, ma straniante, non avere una fonte di luce predefinita, osservare l’ombra delle mie braccia sulla parete che danzava e mutava in tutte le direzioni come allungavo o ritiravo gli arti. Niente affatto piacevole.

Infine, il rumore: quello che era iniziato come un lontano rumore di ferro ribattuto e clamore si era presto fatto un alto sottofondo di tintinnii, alti colpi di metallo contro metallo, urla, grida e cacofonia generale, non troppo dissimile da un incontro di boxe tenuto in una fonderia.

Non avevo idea di dove tutti quegli elementi di stranezza mi stessero portando, e continuavo ad avanzare con la stolida determinazione di chi si è perduto e segue la prima luce, anche quella dei fari di un’automobile – il ragazzo che continuava a muoversi balzelloni, con la sua sua andatura dinoccolata, dinanzi a me poteva essere il mio salvatore come il mio carnefice.
Probabilmente sarebbe stato entrambi.

Non riuscii ad accorciare le distanze che quando il sentiero iniziò a scendere e a farsi un poco più largo, permettendomi di usare le gambe in parallelo, e non una davanti all’altra. Mentre la via di roccia cominciava a discendere, notai che ci stavamo avvicinando ad una delle navi incagliate più grandi, e al fiume bluastro che avevo intravisto prima.

Inoltre, vidi che verso di noi si stavano avvicinando alcune figure, scure anche nel diffuso chiarore di bruma della caverna – non riuscii a distinguerne le forme nettamente, ma qualcosa nel loro modo di muoversi, o forse nell’anatomia stranamente abbozzata, mi fecero rallentare il passo, fino a fermarmi e a prendere fiato.

Con i polmoni che inalavano aria che puzzava di ferro bruciato, mi chiesi se non fosse davvero il caso di tornare indietro.
Il ragazzo superò le figure come se non esistessero.

Asciugandomi il sudore dalla fronte, continuai a muovermi dietro di lui, le braccia ed il collo rigidi, cercando di farmi notare il meno possibile…

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Pubblicazione tarda, ma sembra che sia una specie di binomio: o c’è la linea, o c’è l’ispirazione.

Fatemi sapere cosa ne pensate, ci rivediamo presto con Il Crossover dell’Anno!